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Adolescenti bloccati

Gianluca è un giovane appena maggiorenne che frequenta l’ultimo anno dell’ITIS, indirizzo meccanica. Ha una famiglia apparentemente normale: mamma, papà, un fratello che frequenta la scuola media. Ha una fidanzata da qualche mese con la quale si dice sereno, ha un piccolo gruppo di amici, conosciuti alla scuola materna e restati sostanzialmente gli stessi. Nessun problema apparente se non fosse che all’improvviso comincia a saltare le lezioni, prima un paio di giorni la settimana, poi sempre più giorni consecutivi. Punta la sveglia la mattina, si veste, ma quando è il momento di uscire di casa si blocca, non ce la fa.

Martina è una ragazza di 14 anni, frequenta la scuola media nel suo quartiere, ha sempre avuto ottimi voti, la scuola sembrava importante per lei come per i genitori. Ha un’amica del cuore, con la quale ci sono stati momenti di tensione nel passato, ma sempre risolti. Ha una famiglia tradizionale, un po’ rigida nelle regole, ogni tanto hanno dei conflitti, ma dopo qualche giorno le cose tornano alla normalità. Un giorno però Martina accusa un grande mal di stomaco, nausea, fatica a respirare e si fa portare al Pronto Soccorso dove viene sottoposta a tutte le analisi, senza che venga rilevato alcun problema fisico. Viene mandata a casa con una diagnosi di ansia. Gli episodi si ripetono a distanza di pochi giorni l’uno dall’altro al punto che Martina non riesce più a studiare, i suoi voti peggiorano e la famiglia intera va in crisi perché nessuno, neanche Martina, sa spiegarsi quale sia la causa di tanto malessere.

Sono solo due storie di giovani che in modo apparentemente inspiegabile quanto improvviso, si trovano in così grande difficoltà da accusare sintomi bloccanti vedendo compromesso il proprio percorso scolastico. L’ansia sembra essere l’emozione dominante, ma interrogati non sanno dire perché si sentano così. Di norma gli adulti, e in particolare i genitori, spesso anche gli insegnanti, faticano a comprendere i loro silenzi, il loro non saper rispondere, non saper dire quale sia stato l’evento che ha causato il malessere; spesso cercano di aiutarli dicendo loro che non c’è motivo di essere ansiosi, che possono recuperare, che basta impegnarsi un po’ e quando si rendono conto che i loro consigli non solo non sortiscono effetti, ma non vengono neanche accolti si arrabbiano, o sentendosi impotenti si deprimono a loro volta.

Pensare a sé stessi adolescenti, a quello che si provava alla loro età, a quelle che erano gli ostacoli e gli obiettivi della propria adolescenza non sempre è di aiuto, soprattutto perché le sfide di allora erano molto diverse da quelle che gli adolescenti di oggi si trovano davanti. E’ vero che questa è una considerazione che accomuna tutte le generazioni, ma il contesto contemporaneo è caratterizzato da modelli di performance e aspettative per lo più irrealizzabili e questo spesso rende gli adolescenti contemporanei oltremodo fragili, non all’altezza, con la sensazione di essere comunque perdenti.

E non si tratta solo di performance scolastiche, dove la competitività viene a volte esacerbata dall’impianto stesso della valutazione, ma fisiche, sociali, relazionali, sessuali. Ogni contesto nel quale ci spendiamo presenta modelli e riferimenti “Phototoshoppati”: carriere fulminee che rendono improvvisamente ricchissimi e popolarissimi, volti e corpi perfetti, indiscutibilmente belli e in forma, vestiti in modo impeccabile e trendy, senza limiti finanziari, che non devono rinunciare a nulla, che sanno dire le cose giuste con le parole giuste, frequentano i posti giusti, hanno idee originali e sanno sempre dove andare a bere, a mangiare o a ballare, vivono sempre esperienze esclusive, entusiasmanti, mai stanchi, mai annoiati o demotivati, sempre al top. E se tutto questo è già destabilizzante per un adulto, diventa bloccante per un adolescente alla soglia dell’età adulta, di fronte al problema di dover decidere cosa vuole diventare da grande, alle prese con un Sé reale disperatamente distante dai modelli di riferimento.

Non è facile aiutare l’adolescente contemporaneo a trovare sé stesso, il proprio talento, la propria dimensione, il proprio posto nel mondo. Occorre aiutarlo a sviluppare strumenti emotivi e razionali che gli permettano di guardare la realtà da una prospettiva progettuale piuttosto che depressiva.

Realizzare il progetto

Un figlio nasce prima di tutto nella mente dei genitori, sin dal momento in cui la coppia decide di averlo o dal momento in cui scopre la gravidanza. Inizia così un lavoro di attesa e immaginazione, a volte punteggiato di ansia, ma sempre carico di domande su come sarà, a chi somiglierà, cosa diventerà. Un processo normale e necessario che procede attraverso gli stadi successivi, la nascita, la crescita, lo sviluppo: ognuno di questi porta con sé la necessità di fare un lavoro di adattamento tra “il figlio ideale” e quello reale e non sempre è facile, non sempre è un lavoro privo di tensioni. La fatica più grande per il genitore diventa allora la ricerca costante di equilibrio tra i propri sogni, la necessità di educare, di proteggere e il bisogno legittimo del figlio di crescere, fare esperienza di sé e del mondo, cadere, sbagliare e imparare. Come adulti abbiamo certamente più esperienza dei nostri figli, conosciamo di più il mondo, sappiamo quanto ci sono costate certe scelte e vorremmo poter trasmettere questo sapere ai nostri figli affinché per loro la strada sia più semplice. Non sempre però questo è educativo, non sempre questo li aiuta a crescere. Lasciare loro la libertà di decidere ciò che desiderano per sé stessi, lasciare che compiano le loro scelte “sbagliate” ed esserci per loro quando tornano con le ossa rotte, non prevaricare il loro desiderio con il nostro, questo richiede una grande forza che dobbiamo trovare se vogliamo che i nostri figli siano gli adulti di domani.

I "bisogni" nella coppia

"Immaginate questa scena: a persone che non si conoscono viene chiesto di formare delle coppie in cui ciascun partner rivolga all'altro una e una sola domanda: <<che cosa vorresti?>>. Che cosa c'è di più semplice? Una domanda innocente. Eppure tutte le volte questo esercizio di gruppo provoca un'esplosione inaspettata di emozioni fortissime " (I.D. Yalom, 1989).

Una domanda semplicissima, quante coppie se la rivolgono l'un l'altro? quante volte nella propria storia di coppia? Eppure non si è sconosciuti, dovrebbe essere ancora più semplice porla e rispondere. Fare il possibile per dare all'altro/a ciò che desidera, per renderlo/a felice è il primo gesto d'amore.

Se facciamo fatica a fare questa domanda o a rispondere, potrebbe essere arrivato il momento di lavorare sulla relazione di coppia, perché “la coppia” è quel luogo dove accettiamo di restare se vediamo soddisfatti i nostri bisogni. Del resto ogni relazione umana si basa su questo principio: sto insieme agli altri perchè questo mi da’ dei benefici: sicurezza, affetto, compagnia, ascolto, divertimento, denaro…. Ogni persona ha la sua risposta al complesso meccanismo che la unisce agli altri.

Troppo spesso però quando parliamo di coppia i “bisogni” che desideriamo che l’altro/a soddisfi restano in larga parte rinchiusi nella nostra mente sotto forma di aspettative, che l’altro/a il più delle volte ignora, o valuta secondo i propri “metri”, cioè secondo le priorità che da’ ai propri bisogni.

E sono sempre diverse.

Tante volte mi è capitato di incontrare coppie nelle quali il conflitto scaturisce dalla reciproca “ignoranza” dei bisogni, o dalla presunzione di sapere cosa l’altro/a desidera, senza peraltro averglielo mai chiesto o aver mai avuto l’opportunità di ascoltarlo/a.

Conoscere i bisogni dell’altro/a così come avere la capacità di esprimerli sinceramente, è una condizione essenziale per la vita della coppia; se mancano queste capacità presto o tardi la coppia va in sofferenza. Imparare si può, ma occorre prima sviluppare la capacità di saper ascoltare i propri bisogni, prima di potersi occupare di quelli del/della partner.

L'ansia per la salute

“L'importante è la salute” è un antico slogan, che a volte ci ripetiamo per tranquillizzarci rispetto agli ostacoli che incontriamo nella vita.

A volte però le preoccupazioni per la salute e le azioni che mettiamo in campo per garantircela possono diventare eccessive, arrivare ad essere un pensiero costante, influenzare tutti i nostri comportamenti, le nostre scelte fino a sviluppare una vera e propria ansia: il contesto sembra troppo minaccioso, l’ambiente insano, le altre persone pericolose.

L’ansia può assumere diverse forme, manifestarsi in modi e situazioni differenti, quindi può riguardare il corpo e la salute, o le malattie. E’ ovvio che di solito non ci piace l’idea di ammalarci, di andare incontro a patologie serie, quindi adottare uno stile di vita sano, fare esercizio fisico, effettuare scelte alimentari appropriate, evitare fumo, moderare l’alcol sono comportamenti auspicabili e corretti nella direzione della salvaguardia della salute.

Tuttavia può capitare che anche le scelte apparentemente corrette diventino “estreme”, cioè si mettano in atto atteggiamenti rigidi, iper-controllanti, comportamenti di “evitamento” che influenzano pesantemente la vita lavorativa, familiare e sociale.

In generale l’eccessiva rigidità, l’assenza di capacità di adattamento, sono campanelli di allarme che devono farci riflettere sulle motivazioni per le quali non siamo disposti ad effettuare delle eccezioni alle regole che ci siamo imposti. A volte, paradossalmente, è proprio la paura di venir meno a queste regole, che peraltro noi stessi ci siamo dati, che innesca i processi ansiosi. Questo può essere l’indicazione che le motivazioni della rigidità hanno le loro radici altrove, cioè non è la salute, o almeno non solo quella, quello che desideriamo proteggere. A volte tenere sotto controllo l’ambiente, nella forma dell’alimentazione, o degli agenti patogeni, tranquillizza perché fornisce l’illusione di avere anche tutto il resto sotto controllo.

Le Relazioni Tossiche

Si sente parlare spesso di relazioni tossiche, di partner narcisisti e magari ci domandiamo se anche noi siamo vittime di queste persone piene di sé ed egoiste. Più di frequente invece capita di sperimentare forte disagio nella relazione, tristezza costante e senso di confusione, in questi casi difficilmente si pensa che ciò sia dovuto ad un partner narcisista, invece è una possibilità che dobbiamo prendere seriamente in considerazione. Vediamo perché.

Il narcisista patologico è caratterizzato da idee di grandiosità, senso di superiorità e dominanza sugli altri; in realtà ha un’autostima molto fragile, è completamente incapace di accettare critiche o dissensi, ha bisogno di essere costantemente lusingato, lodato, approvato e riconosciuto come il migliore.

Il narcisista consapevole viene anche definito ‘Overt’, aperto, è facilmente riconoscibile e spesso non pericoloso, al limite fastidioso. Il tipo Covert invece non cerca ammirazione in modo palese, ma pensa che questa ammirazione gli sia dovuta, ritiene che la vita sia in debito con lui e prova risentimento verso una o più persone che considera responsabili della sua situazione. Per questo il narcisista Covert non è semplice da individuare. Il narcisista perverso o maligno non ha bisogno di conferme, dà per scontata la propria superiorità: è orgoglioso, egoista e manca completamente di empatia.

Due declinazioni che possono unirsi nella personalità del narcisista:

-         Machiavellico: è il narcisista insensibile, impassibile e senza morale propenso a manipolare gli altri in ogni modo e con ogni mezzo.

-         Psicopatico: nutre disprezzo di regole e leggi, è bugiardo, impulsivo, facilmente provocabile e aggressivo, nessun rimorso nel male procurato agli altri

L’insieme di queste caratteristiche definisce il Narcisista Maligno (detto anche Personalità Oscura).

La manipolazione è una delle armi del narcisista maligno, si differenzia dalla persuasione perché avviene senza il rispetto della volontà dell’altro, utilizzando metodi subdoli e ingannevoli, mostrando solo una parte della verità, distorcendo la realtà dei fatti. Inoltre il manipolatore scarica la colpa sugli altri, spesso si comporta da vittima per conquistare attenzione e affetto. All’inizio fa regali e complimenti, ma successivamente usa sistematicamente il ricatto emotivo, spesso tramite l’arma del silenzio, individua le debolezze dell’altro e lo fa dubitare delle proprie capacità, è un egocentrico: si ingelosisce facilmente.

Le tecniche di manipolazione sono molte: vanno dall’esigere obbedienza e sottomissione, alla seduzione e inganno, al vittimismo, alla denigrazione, al generare nella vittima senso di colpa e paura dell’abbandono. Ma le più insidiose sono quelle così dette del “Gaslighting” nelle quali il manipolatore utilizza espressioni specifiche per distorcere o confondere la percezione della realtà facendo credere che le cose siano andate in modo diverso fino a indurre una tale confusione nelle vittime da farle dubitare di sé stesse.

Nella relazione amorosa il narcisista maligno è un abile seduttore, ma il gioco della conquista è per lui più importante della conquista stessa, è una costante prova di sé; ha difficoltà a sperimentare l’amore, instaura quasi sempre “relazioni tossiche”, cioè di dipendenza affettiva che si caratterizzano per tre fasi: “love bombing”, ovvero la fase di corteggiamento di solito molto serrato e pressante. È un periodo che la vittima ricorda come “il sogno” e che la terrà legata al narcisista nella speranza di poter ritrovare quella favola. La seconda fase è quella dell’isolamento (gaslighting) attraverso il quale il narcisista crea le condizioni perché la sua vittima resti isolata da amici e familiari, al tempo stesso può svalutarla e umiliarla magari mostrando interesse verso altre persone. Infine l’ultima fase è quella dell’abbandono, quando la vittima ormai ridotta a un nulla, senza autostima, al punto che a volte non si riconosce più neanche, diventa poco interessante per il narcisista che la sostituisce. Se invece è la vittima che riesce a trovare il coraggio per interrompere la relazione, questo costituisce una ferita insopportabile per il narcisista che cercherà di riconquistare la vittima per dimostrare a sé stesso di essere irresistibile o potrebbe decidere di annientarla, a volte anche fisicamente. Il narcisista consuma le relazioni e con esse il partner.

Cadere vittima di un narcisista maligno non è una colpa né una vergogna, quando se ne intravvedono i segnali occorre allontanarsene velocemente per non restarne bruciati.

La scuola giusta

Tornare a scuola ed essere assaliti dal dubbio di aver sbagliato tutto.

Una frase che mi sono sentita dire a volte dai ragazzi. Forse troppo spesso per non domandarmi se effettivamente il problema sia il tipo di scuola, o il percorso di studi scelto.

Innanzi tutto occorre sottolineare che la scuola perfetta non esiste, come non esiste il lavoro perfetto, ne’ la città perfetta o la famiglia perfetta. Esistono piuttosto contesti nei quali ci troviamo a nostro agio e altri dove questo non avviene, perché siamo tutti diversi e diverse sono le aspettative con le quali ci poniamo di fronte a scelte e situazioni.

Spesso quando non ci sentiamo a nostro agio è perché in quel contesto non abbiamo trovato la realizzazione delle nostre aspettative. Il che non significa certamente che sia sbagliato nutrire delle aspettative, piuttosto queste non devono discostarsi troppo dal piano di realtà e soprattutto devono sempre tenere conto di quello che noi siamo disposti a dare in cambio di quello che “ci aspettiamo di ricevere”.

Se un certo percorso di studi non ci soddisfa, o non è come ce lo aspettavamo non significa che “abbiamo sbagliato”. Sbaglieremmo nel restare bloccati in attesa che si realizzi ciò che avevamo in mente, senza agire un cambiamento. Dobbiamo riconoscerci sempre il diritto di sperimentare, di conoscere prima di dire se qualcosa ci piace o meno, se fa per noi o no; solo dopo aver provato possiamo decidere.

Sembra ovvio allora che la decisione da prendere sia quella di cambiare, ma non è così semplice. A volte restiamo bloccati dal senso di colpa per aver sbagliato, per aver investito tempo e risorse in qualcosa che non riusciamo a portare a termine, o perché temiamo il giudizio degli altri. Questo causa perdita della motivazione, delle energie, tutto diventa terribilmente faticoso, ogni ostacolo per quanto piccolo appare insormontabile, ogni inciampo provoca un senso di fallimento.

Se ci accorgiamo che i nostri figli appaiono demotivati, privi dell’energia necessaria ad ottenere risultati soddisfacenti, non colpevolizziamoli. Proviamo invece ad aprire un dialogo nel quale ci disponiamo ad accogliere anche la possibilità del cambiamento. La cosa importante non è frequentare la scuola giusta, ma trovare il percorso nel quale i nostri figli sentono di poter dare il meglio di sé.

Autunno: occhio all'umore

L'autunno può essere considerata una stagione di "transizione", cioè di passaggio dall'estate caratterizzata dal caldo e da molte ore di luce, all'inverno in cui le temperature possono essere anche molto rigide e le ore di luce decisamente ridotte. Questa transizione riguarda il nostro corpo che deve regolare diversamente i propri ritmi circadiani e questo comporta una certa quota di fatica soggettiva, che a volte da’ sintomi come il riacutizzarsi delle gastriti o un aumentata sensazione di stanchezza e bisogno di dormire. Anche la nostra mente risente della fatica di adattamento e questo spiega come a volte, sintomi ansiosi e depressivi possano riacutizzarsi. Aspettare che la stagione si stabilizzi non sempre è sufficiente alla remissione di ansia e depressione, a volte il tono dell'umore resta deflesso, l'ansia non si dissolve, il sonno resta disturbato così come l'alimentazione. Questo accade soprattutto quando la stagionalità fa emergere difficoltà emotive personali che sono restate nell’ombra magari a causa degli impegni lavorativi, o familiari; c’è chi utilizza per esempio la bella stagione per “distrarsi” con mille attività e quando queste vengono meno, resta un tempo vuoto che fa emergere il malessere. Il ricorso ai farmaci è molto diffuso nel nostro paese: purtroppo i farmaci psico-attivi non curano, ma moderano i sintomi attraverso una modificazione degli equilibri bio-chimici. Quello che nessun farmaco può fare è risolvere la causa dello stato emotivo disturbato. I nostri pensieri, il modo in cui affrontiamo le situazioni, la qualità delle nostre relazioni interpersonali, la nostra sessualità non cambiano con i farmaci, bensì con una trasformazione interna legata all’acquisizione di nuove consapevolezze e nuovi modi di leggere la realtà, gli altri e noi rispetto agli altri.

A volte ci sentiamo dire “non pensarci più”, “lasciatelo scivolare addosso”, “basta volerlo”, ecc., magari da amici o persone che ci vogliono bene e che tentano di aiutarci. Chi però soffre di un disagio emotivo sa bene che non sempre basta voler star bene perché questo si realizzi, anzi quasi mai è così. Lasciare che gli eventi scivolino sulla nostra pelle senza lasciare traccia è più una bella illusione che una posizione realizzabile. Occorre un cambiamento radicale che da soli è molto difficile da attuare: questo perché il modo in cui interpretiamo gli eventi e le situazioni dipende dal nostro modo di essere, dalla nostra storia, in una parola da noi. Per cambiare dovremmo “uscire da noi” per essere qualcun altro e provare a dare alla realtà altri significati. Questo lavoro, impossibile da soli, può essere invece fatto da un professionista: tale è lo psicologo.

Di nuovo a Scuola!

Mai come quest’anno le sensazioni di sollievo per l’inizio del nuovo anno scolastico accomunano studenti e genitori. 18 mesi di DAD hanno sfiancato gli uni e gli altri, anche se per motivi diversi: gli studenti, all’inizio allietati dalla “comodità” di fare lezione dal letto, di sparire dallo sguardo vigile degli insegnanti spegnendo la telecamera “scusi prof…ho la connessione lenta!”, hanno finito per rendersi conto che l’apprendimento ne ha risentito, così come le loro relazioni, il loro stesso “esistere” nella mente di compagni e professori. I genitori che hanno trascorso mesi a scaricare e caricare i compiti, a “monitorare” la connessione dei figli, la loro partecipazione, la qualità delle lezioni, la motivazione, per poi rendersi conto che nonostante i loro sforzi molto è stato perso, anche se non tutto.

Allora adesso che finalmente si ritorna in classe le speranze come le aspettative sono molte, da parte di tutti gli attori in causa. Si perché tra le aspettative, in molti c’è anche quella di “recuperare” tutto quanto perso a causa dei tempi e delle modalità non proprio perfette della DAD. Professori, genitori e studenti. Occorre però fare attenzione e non dimenticare che bambini e ragazzi sono soprattutto esseri umani che vivono un tempo “inquinato” dalla pandemia, che hanno vissuto un’esperienza “di perdita” che non ha eguali e che noi adulti facciamo molta fatica a comprendere nelle sue dimensioni e implicazioni.  La scuola, l’istruzione, sono importanti soprattutto per noi adulti che ne conosciamo le conseguenze a lungo termine. I ragazzi hanno ben altre priorità ed è giusto che sia così. Dobbiamo accogliere innanzi tutto il loro bisogno di tornare ad essere in relazione con gli altri: compagni e professori, perché non è detto che il semplice “riaprire le scuole” risolva tutto quello che è stato compromesso dalla pandemia.

Molti ragazzi saranno in grado di ricostruire routine e abitudini, riallacciare rapporti, riaffrontare fatiche e ansie, riprendendo da dove avevano interrotto. Per altri potrebbe essere più faticoso, potrebbero esserci paure – molte delle quali peraltro indotte dagli adulti – preoccupazioni legate al senso di adeguatezza, all’accettazione, alla prestazione. Pensieri negativi che confliggono con l’entusiasmo esibito dai più, Media compresi, riguardo la ripresa delle attività didattiche.

E’ a questi ragazzi che dobbiamo prestare maggiore attenzione, restando in ascolto e con gli occhi bene aperti osservandoli con discrezione, ma con sguardo attento e non giudicante per cogliere i segnali di eccessiva fatica e poter dar loro una mano, spiegando che può essere normale sentirsi cosi, che la ripresa è faticosa e che ciascuno ha bisogno di tempo e spazio per riprendere le sue abitudini, per familiarizzare di nuovo con un ambiente che ci hanno dipinto ostile e pieno di insidie fino a qualche settimana fa, per riallacciare rapporti che magari erano già fragili o appena accennati e che adesso richiedono di ricominciare daccapo, con un nuovo investimento emotivo.

Cerchiamo di essere comprensivi con i nostri bambini e ragazzi, genitori o insegnanti che siamo, le nostre priorità sono diverse dalle loro, ma spetta a noi creare per loro uno spazio, nel quale non si sentano giudicati per non essere sempre felici, super efficienti, in una parola..."perfetti".

Uomini che Odiano le Donne

Parafrasando un famoso titolo letterario e cinematografico, voglio soffermarmi a riflettere sull’ennesimo episodio di omicidio di una giovane donna che ha osato lasciare un fidanzato che non ha saputo farsene una ragione.

La cronaca ci fornisce ormai quasi quotidianamente episodi di questo genere che etichettati come “femminicidi” vanno ad ingrossare una lista la quale, passate 48 ore non sembra più impressionare nessuno. Le istituzioni non sembrano riuscire a trovare protocolli di prevenzione idonei a contrastare il fenomeno, nell’ultimo caso il “provvedimento restrittivo” ha, a posteriori, il sapore di una beffa…. Il soggetto non avrebbe potuto avvicinarsi alla vittima, eppure lo ha fatto compiendo un atto talmente estremo da rendere questo provvedimento ridicolo. Ma noi gente comune cosa possiamo fare? non abbiamo strumenti per intervenire sulle leggi, né possiamo farci giustizia da soli. Se anche la denuncia tanto caldeggiata presso le donne vittime di violenza domestica, alla fine non protegge, cosa si fa? E’ proprio vero che siamo inermi di fronte a questi eventi?

Intanto occorre dire che le denunce non cadono tutte nel vuoto, che servizi sociali, giudici e forze dell’ordine nella maggior parte dei casi riescono a fermare il degenerare delle situazioni e la cronaca ci informa delle eccezioni, mai della regola: le notizie belle non fanno notizia. Quindi denunciare è sempre utile e necessario. Ma possiamo fare molto anche prima della denuncia.

Gli uomini che usano violenza sulle donne, così come quelli che non si sanno rassegnare all’abbandono prima di essere partner sono stati figli. Dietro a questi uomini ci sono famiglie all’interno delle quali, dobbiamo domandarci, quale tipo di sistema di valori ha fatto da sfondo all’educazione? Non basta mandare i figli a catechismo, fargli fare battesimo-cresima-comunione e ovviamente farli sposare in chiesa, per metterci al riparo dal rischio di allevare un uomo violento.

Noi genitori abbiamo enormi responsabilità nel modo in cui i nostri figli interpreteranno il ruolo di partner prima e genitori poi. Sicuramente con l’esempio, ma anche e soprattutto attraverso l’educazione alla tolleranza della frustrazione. I nostri figli sono iper-protetti e non solo rispetto ai pericoli “esterni”, quanto ai dolori piccoli e grandi che ogni individuo si trova a dover fronteggiare nel corso della sua esistenza. Genitori “spazzaneve” sono quelli che nell’intendo di salvaguardare la serenità e la felicità dei figli, si fanno carico di ‘spazzare’ via dal loro cammino qualsiasi ostacolo, intervengono con educatori, insegnanti, allenatori appena intravvedono il pericolo del giudizio negativo, della non riuscita eccellente, del non riconoscimento del loro valore, delle loro doti. Genitori che pur di evitare ai figli il dispiacere della perdita, si fanno tramite anche con gli amici nei loro dissidi, si prodigano nel tentativo di risolvere le dispute, o all’opposto riversano tutta la responsabilità dei conflitti sugli “altri” che non sono onesti, che tramano, che non meritano, invece di sollecitare una riflessione sulle responsabilità personali, sui comportamenti di entrambe le parti, sui sentimenti degli altri per infine consolare e lenire le ferite per permettere ai figli di sperimentare che il dolore si può sopportare, che non uccide e non determina la fine, ma solo una svolta.

Non guardiamo a questi episodi di cronaca con il sollievo di chi pensa “a noi non succederà mai”, ma con la domanda “ho fatto tutto quello che potevo per rendere mio figlio capace di sopportare la frustrazione? Quante volte l’ho lasciato cadere? Quante volte l’ho lasciato piangere? Quante volte l’ho consolato?” e soprattutto “quante volte sono stata/o capace di tollerare il dolore di mio figlio?”

Se tornare alla normalità è difficile…

Tutto intorno a noi inizia a muoversi, tutti dicono che finalmente adesso si può ritornare alla vita, alla socialità, moltissimi pianificano vacanze, altri partono per il mare nel week end, altri si ritrovano regolarmente con gli amici per il rito dell’aperitivo, ma noi ci sentiamo bloccati.

Non per tutti l’allentamento delle norme anti-covid ha segnato la ripresa della normalità. Per alcuni di noi sembra più difficile che per altri ritrovare la fiducia nell’ambiente circostante e nel prossimo. Per altri ancora sembrano esaurite le energie, come se fosse intervenuta una stanchezza profonda, o una assenza di motivazione per riprendere le attività sociali pre-pandemia.

Chi vive questa condizione si sente ‘diverso’, quasi anormale, rispetto ad una moltitudine che sembra piena di energia e incurante dei rischi, o della fatica di riallacciare relazioni, di ritrovare fiducia negli altri, di accettare la vicinanza di sconosciuti, come se si sentissero invulnerabili.

Si tratta di sensazioni e paure che sono compatibili con l’esperienza della pandemia, con lo stato di allarme che ha caratterizzato gli ultimi 16 mesi e che su alcuni ha avuto un impatto apparentemente gestibile, ma con strascichi inattesi. Per altri ha solo aumentato uno stato di allerta già presente, per esempio nei soggetti ansiosi. Ci sono poi le persone nelle quali il prolungarsi dello stato di emergenza ha fatto emergere fragilità che fino ad ora erano restate latenti.

Qualunque sia la causa occorre innanzi tutto essere consapevoli che abbiamo attraversato un’esperienza del tutto nuova, rispetto alla quale nessuno era preparato, ma tutti abbiamo dovuto attingere alle nostre risorse psichiche (e non solo) per farvi fronte, in un continuo altalenare tra aperture e chiusure, allarmi e ripartenze parziali, illusioni e disillusioni. Molti di noi hanno perso molto in questa pandemia, dal punto di vista degli affetti, o delle sicurezze finanziarie, o del lavoro, o come nel caso dei giovani, in termini di ‘vita’ spesa. Oltre a questo, tutti noi abbiamo perso quel senso di sicurezza effimera nel nostro stato di salute, che ci permetteva di muoverci nell’ambiente incuranti delle insidie perché non ci era mai successo di doverci tenere a distanza dai nostri simili, che non ci erano mai stati rappresentati come pericolosi.

Allora è importante, per chi si sente ancora bloccato in casa, incapace di riprendere tutte le attività sociali di prima, concedersi il tempo di affrontare con gradualità l’esterno, la prossimità, il contatto. Non avere fretta, ma impegnarsi ogni giorno in un piccolo esercizio di ri-socializzazione per riacquistare fiducia in sé e nella propria forza di far fronte alle insidie e uscirne vincitori.

Il lockdown ha influito sulle relazioni uomo-donna?

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"I tempi delle donne sono senza dubbio più rapidi e più veloci di quelli degli uomini. Nel senso che quando c'è un coinvolgimento, anche solo nello scriversi via chat, per una donna di qualsiasi età è come se fosse stato già fatto un passaggio 'oltre'. È disposta a mettersi in relazione diversamente da un uomo. Spesso, invece, vedo uomini che quando sentono la possibilità di una relazione più approfondita, malgrado sia stata cercata pure da loro e quindi con una partecipazione reciproca, alla fine hanno paura di andare avanti. Questo avviene per gli incontri virtuali, sdoganati dalla pandemia, ma lo stesso avverrebbe se la conoscenza fosse fatta vis à vis". (Carlo Valitutti psichiatra – Ag. Dire; Roma 15 giugno)

Questa pandemia ha certamente avuto una responsabilità nel cambiamento almeno delle modalità con le quali uomini e donne hanno gestito le loro relazioni: in un tempo sospeso dove per mesi siamo stati costretti in casa, con la mancanza di rapporti sociali e la distanza forzata, il mondo virtuale, quello delle chat e dei siti di incontri, è arrivato a compensare un mondo reale proibito. Questo, però, non ha sostanzialmente modificato la tendenza di alcuni uomini a rimanere in superficie prendendo tempo, se non a volte addirittura scappando, da coinvolgimenti troppo stringenti e quella di alcune donne ad avere- e a cercare- una relazione più approfondita, dando a volte la sensazione di avere “fretta di legarsi".

Ovviamente non generalizziamo, molto dipende dalle inclinazioni personali e dalle esperienze che ciascuno matura, ma dobbiamo sempre tener presente che le differenze individuali uomo-donna esistono proprio in virtù delle differenti esperienze che hanno caratterizzato la storia evolutiva umana. Infatti, se alle donne dobbiamo riconoscere una maggiore dimestichezza con la parola questo è anche a causa del ruolo che le stesse hanno svolto nello sviluppo sociale e culturale del genere umano. Non è certo una colpa se l’uomo ha iniziato la sua evoluzione “specializzandosi” nella caccia e la donna nella “raccolta” e nell’accudimento.

Casomai la colpa sta nel rifiutarsi di evolvere, crescere, cambiare all’insegna del “io sono fatto/a così”. Questi tempi così complessi impongono ad entrambi i sessi uno sforzo di adattamento alle mutate condizioni, e così come negli anni si è fatta strada l’idea che i padri non abbiano limiti fisici o cognitivi che impediscano loro di accudire i loro figli, allo stesso modo non c’è ragione di ritenere che gli uomini non possano imparare a relazionarsi in modo più approfondito, imparando a parlare e a confrontarsi con l’altro sesso anche sui sentimenti e sulle emozioni. “l’uomo che non deve chiedere mai” è ormai un cavernicolo, l’uomo contemporaneo sa essere sensibile e determinato, è istruito: sa parlare di sport come di scienze, così come la donna sa essere madre amorevole e attenta e sa fare carriera, sa parlare di sentimenti, ma sa andarsene se il partner non è capace di rispondere adeguatamente ai suoi bisogni.


Adolescenti Responsabili

Adesso che gli adolescenti stanno aderendo in massa (molto più che i 60enni) alla campagna di vaccinazione dove sono le voci che li descrivevano irresponsabili, incapaci di affetti verso i loro nonni, restii ad assumersi la fatica di limiti e restrizioni? Certo ci sarà sempre chi vorrà dare a questo gesto il senso di un tentativo di sentirsi liberi di girovagare in lungo e in largo senza limitazioni, di potersi lasciar andare a qualunque vizio, come se ci si fosse dimenticati la forza del desiderio di libertà e di scoperta che l’adolescenza mette nel petto dei bambini di ieri, adulti di domani, alla ricerca di sé e dell’altro.

Una ricerca che molti di noi adulti hanno rinunciato a fare, con la scusa del rischio contagio ci rinchiudiamo nella sicurezza effimera delle nostre quattro mura, con la nostra tv, le nostre torte e le pizze che tanto ci fanno sentire bravi. Guardiamo con malcelata invidia l’energia che anima i nostri giovani, e invece di ammirare giudichiamo, critichiamo, etichettiamo.

Li vogliamo in casa, ma non davanti ai videogiochi; li vogliamo bravi a scuola, ma non con una loro testa per pensare e giudicare la qualità di quella scuola; li vogliamo pieni di amici, ma quelli che piacciono a noi; li vogliamo ubbidienti e rispettosi delle regole, ma anche appassionati lottatori per i principi importanti per noi, insomma li vogliamo  diversi da come sono.

E se invece questa volta la loro corsa al vaccino fosse la dimostrazione che hanno capito il valore della libertà, ma anche quello della responsabilità sociale? Se avessero messo in moto il loro pensiero per spazzare via dal loro orizzonte i complottisti e i fatalisti e volessero credere al valore della ricerca e della scienza? E se questa volta fossero loro, i minorenni, a chiedere ai genitori preoccupati dei microchip sotto pelle, di essere portati agli hotspot per essere vaccinati al più presto?

Quanto farebbero apparire molti adulti inadeguati ai loro occhi?

Impariamo ad accettarli nella loro voglia di vita, a volte strabordante, ma fondamentale per diventare adulti dal pensiero indipendente.


Italiani sempre più sotto stress

Dall’ultima rilevazione effettuata dall’Istituto Piepoli, Il 34% degli italiani presenta livelli di “stress elevato”, 10-15 punti in più rispetto ai valori medi degli anni precedenti. Le fonti principali sono: l’emergenza Covid (54%), le preoccupazioni per l’economia (44%), le condizioni lavorative (37%), l’organizzazione famiglia/lavoro e le relazioni con partner e figli (26%). Se mettiamo insieme questi numeri, ci rendiamo conto come il benessere psico-fisico delle persone sia fortemente influenzato dalla situazione pandemica e da tutte le conseguenze effettive o temute che essa ha sulla vita di tutti noi, a volte senza che ne abbiamo piena consapevolezza. Infatti sulla nostra quotidianità incombono impegni lavorativi, familiari o scolastici che devono essere comunque rispettati nonostante le limitazioni, le paure e le difficoltà organizzative. Questo ci impone di apportare continue modifiche alle nostre routine, che anzi cessano di essere routine proprio in virtù dell’estrema incertezza che caratterizza questo periodo. Ma gli esseri umani nascono abitudinari: funzioniamo bene se la nostra vita può contare su un certo numero di prassi consolidate, situazioni note, azioni ripetitive che possiamo compiere senza porre troppa attenzione, orizzonti definiti. Dai ritmi di sonno-veglia, a quelli dei pasti, all’orario lavorativo, agli appuntamenti con gli amici, al momento in cui prenotare le vacanze estive, ci piace fare progetti e pianificare il nostro tempo. Prima di questa pandemia la nostra vita era scandita da alcuni rituali che rispondevano al nostro bisogno di ‘ancoraggio’, di piccole certezze. Tutto messo in crisi dal Covid che come un tornado ha sparigliato le carte e ci ha gettati nell’incertezza sulla nostra salute, quella di nostri cari, o delle persone che incrociamo al supermercato, sul quando e come poter vedere gli amici, uscire a fare un giro per il puro gusto di farlo, alle modalità di lavoro, al lavoro stesso. In tutta questa incertezza, dove niente sembra offrire garanzie di durabilità, è normale sentirsi disorientati, privi di motivazione e di energia; nel mio lavoro non è raro imbattermi in persone che raccontano di aver perduto ogni interesse anche per quelle attività di tipo hobbistico che sembravano la meta agognata nei periodi di lavoro intenso e che oggi, pur avendo la possibilità di dedicarvi tempo, hanno perso smalto, attrattività. Per altri la crisi è legata alla percezione di un conflitto interno tra l’idea di sé come persone attive e piene di energia e l’osservazione di una realtà di sé quasi irriconoscibile per inerzia e pigrizia. C’è da dire che tutto questo passerà: come dice un brano di un famoso pezzo di Renato Zero <<nessuna notte è infinita…>>


Adolescenti in sofferenza

I recenti avvenimenti che hanno visto protagonisti adolescenti rissosi e violenti, hanno fatto emergere un disagio che sembra troppo semplicistico catalogare come puro disprezzo delle regole. Quello che abbiamo potuto osservare negli ultimi 11 mesi è una periodica emissione di regole a volte più restrittive, altre leggermente permissive, ma sempre all'interno di una cornice ansiogena e colpevolista. E se da un lato il diritto alla salute è imprescindibile, dall'altro come adulti abbiamo il dovere di riflettere su cosa significhi salute.
Secondo l'OMS salute non è la semplice assenza di malattia, ma uno stato di benessere dell'individuo che si deve realizzare in tutti gli ambiti fondamentali della vita: lavoro, relazioni, sessualità; questo significa che non basta curare malattie e proteggersi rispetto a virus o contagi, occorre produrre ogni sforzo per tutelare anche le altre aree della vita che concorrono anch'esse al benessere dell'individuo. A maggior ragione quando stiamo parlando di giovani, quegli stessi ai quali domani chiederemo di essere efficienti al punto da pagare le nostre pensioni. Invece le risse e gli assembramenti cui stiamo assistendo sono proprio l'espressione di un malessere che non trova nessun contenitore istituzionale o informale che sappia leggerlo, comprenderlo e curarlo. Non condanniamo sommariamente i nostri adolescenti, ma cerchiamo di comprendere il loro senso di smarrimento, vestendo per loro l'abito dell'adulto competente, che non ha tutte le risposte ma è capace di dare una lettura della realtà il più possibile serena e consapevole. Consapevole di essere noi stessi in difficoltà, riconoscendo il nostro bisogno di chiedere aiuto, abbandonando la supponenza di essere in grado di fronteggiare qualsiasi emergenza come si affronta una partita di calcetto scapoli-ammogliati. Il nostro è un tempo difficile, per gli adulti e per gli adolescenti in modo diverso, ma pur sempre difficile. aiutiamoli e aiutiamoci a superarlo affidandoci a professionisti competenti. Come quando abbiamo un malessere nel corpo cerchiamo il medico, così dobbiamo sapere che il malessere della psiche non è necessariamente pazzia, ma merita la giusta attenzione da parte di un esperto appositamente preparato.

Covid-19

La Pandemia ci ha prima colti di sorpresa, poi preoccupati, allarmati, impauriti, stressati, stancati... Siamo sottoposti a sollecitazioni importanti da diversi mesi e non sempre le informazioni ci arrivano da fonti attendibili: è difficile districarsi e capire cosa è giusto fare, cosa è adeguato e cosa no. Cliccando sul bottone sotto, puoi scaricare gratuitamente il vademecum dell'Ordine degli Psicologi della Lombardia con alcuni validi consigli per affrontare questo difficile periodo mantenendo lucidità e serenità.

Ordine Psicologi-vademecum-coronavirus.pdf